Belfast – Uno dei temi del G8 in corso in Irlanda del Nord è quello degli open data, i dati non personali in possesso delle pubbliche amministrazioni, di particolare interesse per tutti gli operatori dell’informazione.
«Aprire i dati pubblici – ha detto il Commissario europeo responsabile per l’agenda digitale Neelie Kroes – significa aprire opportunità di business, creare posti di lavoro e costruire comunità».
Non solo: se non abbiamo accesso alla base dati di enti e pubbliche amministrazioni, siamo privati di una parte dei nostri diritti di cittadini e perdiamo una parte della democrazia possibile.
L’Open Data Census monitorizza gli Open Data misurandone l’applicazione in dieci aree: risultati elettorali, spese di governo, emissioni di sostanze inquinanti, statistiche nazionali e servizi ai cittadini. Secondo gli ultimi dati, emerge che a guidare la classifica dei paesi più aperti sono gli Stati Uniti e il Regno Unito, seguiti da Francia, Giappone, Canada, Germania, Italia e Russia. Insomma, l’Italia si posiziona solo al settimo posto su otto.
Link:
– G8 Summit
– Open Data Italia
Elisabetta Di Stefano & staff
Parole, parole, parole. Altro che 50.000 nuovi posti di lavoro.Se andiamo a guardare cosa sta accadendo sul fronte del riuso del dato (è questo l’elemento chiave degli Open Data), vediamo tante parole.
Al momento, i dati disponibili non si prestano a progetti economicamente significativi. Neanche il data journalist trovano nuova materia di lavoro, perché i dati di cui avrebbero bisogno sono ancora “al chiuso” dov’erano 10, 20 e più anni fa, e i dati parziali valgono poco o nulla.
Continuo. Negli Stati Uniti Open Data significa che i dati correntemente prodotti da enti e PA sono a disposizione. Cioè gli Open Data non sono un’attività in più e collaterale, come si sta avviando a fare la PA italiana, con i risultati immaginabili.